Come stai?

Domanda ricorrente nella giornata di ciascuno di noi. Non al punto della forma inglese “how do you do?”, ma certamente in ripida degenerazione verso uno di quegli insopportabili intercalari ormai privi di significato.

Quel “come stai?” però è il primo passo in una conversazione, anche fugace, che ci distingue come esseri umani. Siamo umani, siamo qui sulla Terra insieme e condividiamo uno stato di esistenza e quindi esiste una convenzione sociale che ci obbliga quanto meno a fare finta che ci importi sapere se chi abbiamo davanti sta bene o male.

Anche la risposta “tutto bene, tu come stai?” è ormai un intercalare, ma per i pochi secondi “spesi” in questa formalità ci riconosciamo reciprocamente come esseri che provano qualcosa e i cui pensieri e azioni quel giorno saranno sicuramente viziati da come si sentono. 

A scuola non ci si domanda mai “come stai?”. Eppure gli attori di quel mondo si frequentano per un tempo considerevole. Tanto da conoscersi, da conoscersi bene. O da non conoscersi affatto. 

Un docente entra in classe, viene accolto addirittura dal saluto reverenziale di studenti obbligati ad alzarsi al suo cospetto (rito che nel livello successivo di istruzione, all’università tacciata di essere piena di soggetti pretenziosi, misteriosamente scompare), si siede e fa l’appello. Spesso la fretta lo porta a limitarsi a leggere, peraltro rapidamente, i cognomi dei ragazzi, che non hanno alcun valore identificativo fuori da quella classe: quel cognome è del ragazzo, ma anche di tanti suoi parenti. Si nega valore insomma al nome, primo dato identitario, primo dono che i figli ricevono alla nascita. 

La lezione prosegue così, come se l’aula fosse abitata da macchine e non da esseri pensanti ma soprattutto senzienti. Nella migliore delle ipotesi si comincia spiegando, quindi offrendo qualcosa agli studenti. Nella peggiore si interroga, spesso di nuovo chiamando per cognome, quindi chiedendo per prima cosa una performance, che si conclude con l’assegnazione di un numero, che sarebbe il voto, ma in pratica è l’unica cosa che fino a quel momento, dall’inizio della lezione, costituisce un attributo personale del ragazzo, che lo identifica univocamente. Rispetto a quella singola materia, quel giorno, uno studente interrogato potrà dire di “aver preso” un determinato voto: quel giorno il docente di quella materia quel voto è tutto ciò che saprà di quello studente.

Un ragazzo entra in classe e impara che lì dentro a nessuno importa come sta, ma che a quel sistema importa moltissimo che lui performi. Ogni singolo giorno. Che “vada bene” (non che “stia bene”) ogni singolo giorno se non vuole essere identificato con un numero negativo, che non è solo ciò che va da 0 a 5, ma in generale ciò che discrimina una giornata positiva da una triste, un complimento da un rimprovero da parte dei genitori, un’ora in più o in meno passata a studiare senza neanche chiedersi come ci si sente e cosa si desidera fare.

Cosa accadrebbe invece se entrando in quella classe il primo docente della giornata chiedesse a uno studente “come stai?” e poi gli dicesse di chiederlo a un compagno, dando inizio così a una catena di valore, che restituisca un valore a ciascuno.

Anche il docente è un essere senziente e dovrebbe a sua volta essere interpellato da un allievo con la medesima domanda. Ogni giorno. Per anni.

Sarebbe tutto più vero. A ciascuno verrebbe quotidianamente restituita la sua soggettività, il suo dovere di mettere al primo posto la sua salute mentale, il suo diritto a non essere sempre perfetto, a sbagliare, a non eccellere anche quando i demoni che ha dentro sono qualcosa di molto più grande di un’interrogazione.

Tra tante attività, questa forse è la più semplice, ma anche quella che, con una domanda sola, rivoluzionerebbe completamente un sistema scolastico e centinaia di migliaia di vite.

A cura di Giulia Iacovelli

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