L’ondata di suicidi tra gli studenti che sta travolgendo gli istituti di istruzione superiore e le università italiane ha stimolato un dibattito particolarmente vivace in merito ai temi della salute mentale tra i giovani, o meglio all’aumento vertiginoso dei casi di ansia e depressione nella popolazione studentesca.

Una lettura particolarmente presente, paradossalmente spesso rilanciata dagli studenti stessi, è quella che vede nella cultura della competizione e dell’eccellenza la principale colpevole di un tale dramma generazionale. Questa interpretazione identifica come corresponsabile l’eccessivo spazio mediatico concesso agli eccellenti risultati negli studi di una minoranza di ragazzi. Quindi, sarebbe l’esaltazione di tali storie di successo a generare un sentimento di inferiorità e, dunque, di inadeguatezza in coloro che sono rimasti indietro o che sono semplicemente in regola con le tempistiche e le modalità standard del proprio percorso di studi. Secondo questa teoria, i suicidi tra gli studenti sono determinati da un senso di vergogna per non riuscire a eguagliare quegli altri studenti considerati eccellenti.

Tuttavia, su questo ragionamento grava una pesante contraddizione. Il merito di aver posto al centro della discussione sulle emergenze in età giovanile il tema dei disturbi di ansia è in particolare di singoli studenti e singoli docenti. Sono coloro che si fanno quotidianamente promotori di una cultura della piena accettazione di sé e degli altri, difendendo il diritto di ciascuno a essere chi è, amare chi desidera, scegliere la vita che sente più propria, senza ricevere indebite pressioni sociali, familiari o educative. Tale cultura valorizza, riconosce e tutela le differenze, dando valore all’unicità di ciascuno e del contributo che può dare alla società, a cominciare dai microcosmi di cui facciamo parte (famiglia, scuola, università…).

Seguendo tale impostazione, appare del tutto fuori luogo la netta contrapposizione, riproposta in questi mesi, tra gli studenti che eccellono e quelli che restano indietro. Il punto dovrebbe invece essere proprio, per gli appartenenti a entrambe queste categorie, il diritto a seguire le proprie inclinazioni con le tempistiche che ritengono più opportune, senza alcuna pressione ad accelerare, ma neanche a decelerare; a performare meglio, ma neanche a performare peggio.

La libertà, che non è una conquista eterna, ma un valore da difendere e praticare, deve essere respirata sin dagli anni della formazione. Ed è innanzitutto nelle scuole e nelle università che gli studenti devono poter vivere come desiderano, restituendo al mondo la narrazione di loro stessi che preferiscono. I luoghi della trasmissione del sapere o sono palestre di libertà o perdono di importanza nella crescita degli studenti, in un tempo in cui la spinta all’omologazione è fortissima.

I media non possono essere biasimati perché raccontano storie di studenti eccellenti: si tratta di ragazzi portati per il proprio ambito di studi; o che sono cresciuti in un ambiente sociale particolarmente privilegiato, che ne ha stimolato gli interessi e le capacità di apprendimento; o che hanno bisogno di concludere il prima possibile il percorso universitario per non gravare eccessivamente sulla famiglia; che hanno una famiglia che fa mille sacrifici per consentire loro di terminare gli studi senza preoccupazioni; che hanno un sogno e mettono da parte persino il sonno per inseguirlo; che hanno un obiettivo di vita che poco ha a che fare con un record accademico, ma che vede quel record come un risultato conseguito accidentalmente percorrendo la propria strada con la testa alla meta, non alla velocità per raggiungerla.

Se ognuno deve poter vivere come vuole, l’esistenza e la conseguente narrazione di storie come queste non possono essere considerate lesive di alcunché. Se ognuno deve poter vivere come vuole, non deve scandalizzare che chi legge notizie di questo tipo ne tragga ispirazione per impostare il proprio percorso di vita. Se ognuno deve poter vivere come vuole, uno studente deve poter raggiungere tutti i record possibili e finire sui giornali senza sentirsi in colpa perché un suo compagno potrebbe sentirsi inadeguato rispetto allo standard.

Se ognuno deve poter vivere come vuole, banalmente, non ci devono essere standard.

Bisognerebbe chiedere piuttosto una narrazione più completa di quello che accade nei luoghi della trasmissione del sapere nel nostro Paese. Occorrerebbe che la cronaca delle eccellenze venisse accompagnata da un racconto altrettanto accurato di esperienze di disagio giovanile, di abusi nelle scuole, di patenti di fallimento che rovinano vite intere.

L’adozione di una narrazione binaria, che vede storie di successo e storie di fragilità raccontate come rigidamente alternative sui media e nel dibattito pubblico, ha a sua volta un enorme limite. Nel momento in cui si riproduce una contrapposizione molto spesso inesistente si nega l’intrinseca complessità delle storie di fragilità. Se si vuole dare un racconto fedele dell’attualità del settore della formazione, come si può escludere aprioristicamente che una performance straordinaria conseguita nel minor tempo possibile sia essa stessa figlia di una fragilità, di una volontà di riscatto, della necessità di fuggire da un contesto sociale avverso, o anche della pressione – enorme – a essere “la versione migliore di se stessi”?

Ci può essere fragilità anche nell’eccellenza ed eccellenza anche nella fragilità.

Siamo la versione migliore di noi stessi quando siamo più forti delle mille “voci di dentro”, che nella nostra testa ogni giorno si disputano ferocemente l’immagine di noi che diamo agli altri, gli atteggiamenti che teniamo, le scelte che compiamo. Siamo la versione migliore di noi stessi quando ci strappiamo di dosso l’etichetta che i contenitori sociali in cui siamo inseriti o le singole persone che abbiamo incontrato ci hanno affibbiato, e iniziamo a vivere con coraggio, senza l’urgenza di definire noi stessi e i nostri obiettivi di vita. Siamo la versione migliore di noi stessi quando non consentiamo a nessuno di negare il nostro valore e di calpestare il nostro diritto a esistere nella nostra meravigliosa e unica imperfezione.

La sfida non può essere tra modelli diversi di studente. E neanche tra corpo docente e studenti. È nella società che si gioca la battaglia decisiva affinché tutti possano vivere la vita che desiderano. Non ci sarebbero sentimenti di inadeguatezza, più o meno gravi, se la società non avesse plasmato e replicato, anche e soprattutto attraverso i luoghi della formazione, un unico modo di vivere degno di ammirazione, che implica l’esistenza di una sola ambizione legittima, a cui avvicinarsi il più possibile a prescindere dalle proprie naturali inclinazioni: quella ad avere un impiego prestigioso e ben retribuito, una casa di proprietà, una famiglia solida (padre, madre, possibilmente più di un figlio), le uscite il sabato sera, gli hobby in cui pure bisogna eccellere e le passioni di cui pure bisogna essere esperti, perché anche il tempo libero oggi è terreno di competizione e valutazione.

Gli stessi luoghi della formazione oggi rappresentano un contenitore limitato e limitante. Non è meno scuola l’associazione di volontariato dove i giovanissimi imparano le manovre salvavita. Non è meno scuola la fondazione che consente loro di viaggiare per conoscere nuove culture, mettendosi in discussione. Non è meno scuola il comitato di quartiere dove imparano attraverso azioni concrete come si migliora ciò che li circonda, un isolato alla volta, strada dopo strada. L’educazione formale insomma è ormai solo uno dei tre volti della formazione, perché anche quella non formale e informale sono divenute indispensabili per accompagnare i ragazzi dove devono essere: da un lato, su una strada che è loro, e loro soltanto: non un posto nel mondo, ma un cammino con continue biforcazioni; dall’altro, sul crinale tra il far accadere le cose e lasciare che accadano.

In Occidente, nel XXI secolo, dovremmo essere pronti a riconoscere a ogni vita il famoso “diritto alla ricerca della felicità” che ha segnato il nostro Illuminismo. E non c’è felicità che si possa raggiungere replicando all’infinito il tentativo disperato e violento di ingabbiare una volontà unica e speciale in un modello rigido e impersonale di esistenza, che per qualche decennio ha avuto il merito di renderci tutti uguali.

Siamo tutti diversi. Ripartiamo da qui.

A cura di Giulia Iacovelli

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