Il negozio di antiquariato
Non si può cercare un negozio di antiquariato in via del Corso
Ogni acquisto ha il suo luogo giusto e non tutte le strade sono un percorso
Il negozio di antiquariato, N.FABI
Quando si apre un saggio in genere si scelgono dei versi significativi che diano una vaga idea dello spirito che permea lo scritto. È una scelta ardua per me, che ho in testa così tante canzoni che ce le metterei tutte ed intere, senza aggiungere niente altro. Poiché però non devo parlare di negozi in senso astratto, se voglio rispondere a quello che mi è stato chiesto, devo parlare di prevenzione, salute mentale e scuola.
Premetto di farlo in modo abbastanza vago e confuso ma prometto di lasciare dei “compiti a casa”, tanto per illudermi di aver fatto qualcosa di utile.
Il primo compito a casa di questa giornata mondiale è: se la scuola fosse un mercato, cosa avrebbe da offrire?
Di quello che ha da offrire, cosa ti interessa acquistare? In questo mercato il pagamento non è in denaro, ma in qualcosa da fare in cambio di ottenere quello che vuoi: cosa sei disposto a dare?
Vi suggerisco – come secondo compito – la canzone che ho citato per intero; vi suggerisco di ascoltarla con tutti i sensi. La mettiamo qui.
E inizio con un invito: accorgetevi di cosa provate mentre la ascoltate (pensando a quando siete tra i banchi di scuola): accorgetevi dove è diretta quella sensazione/emozione: potrebbe essere sorpresa (cosa non vedevate, che adesso vedete con piacere?)? Rabbia (quali aspettative sono deluse?)? Speranza (quale desiderio vi sembra di poter realizzare?)? Disperazione (quale mancanza vi fa sen8re di più?)? E così via.
Mi presento
Finalmente, con questo contenuto, ho l’occasione per raccontare a tutto l’universo dei miei 27 lettori (semicit. A.Manzoni) qualcosa che a volte mi sembra il perno intorno al quale ruota la mia carriera di pessimi rapporti con le istituzioni, le gerarchie, le autorità.
All’età di sei anni, quando ho iniziato la prima elementare, sapevo già leggere e scrivere. Sostanzialmente per due motivi: volevo fare le cose che facevano le mie sorelle maggiori e mia madre mi comprò le lettere magnetiche e io ci giocavo sul frigo, nonostante non mi avesse mandata ad una scuola montessoriana e nessuno le avesse spiegato che il segno viene prima del suono e che quindi toccare la forma delle lettere mi avrebbe permesso di apprenderle prima.
Nei primi giorni di una scuola che non era su misura per me – perché mi spiegavano dall’inizio come si scriveva – io tornavo a casa annoiata e non avevo nessun motivo per alzarmi presto alla mattina per andare a scuola, che – avevo sentenziato per le scale del condominio facendolo sapere a quanti potevano ascoltare – “mi fa(ceva) cacare”.
Era l’inizio dei conti con un sistema che cambia continuamente perché nulla cambi.
Oggi sono una psichiatra, per lo Stato sono anche già Psicoterapeuta, ma finché non discuterò la mia tesi di specializzazione in Psicoterapia lo dico molto sottovoce.
Purtroppo sono una figura professionale che compare quando qualche ferita grande è scoperta e molto dolorosa, ma non per questo non mi sento impegnata a lavorare continuamente (e non necessariamente col cartellino timbrato) sulla prevenzione in Salute Mentale, che per me significa: promozione della qualità della vita.
Adesso che nella vita mi occupo attivamente di salute mentale so che la mia mamma non lavoratrice e il mio papà Prof Ing sono stati “sufficientemente buoni” (good enough; Winnicott) perché hanno sostenuto la mia curiosità e allo stesso tempo, nonostante mi facesse cacare, mi hanno trascinata a scuola.
Cosa penso di voti e pagelle?
Ciò di cui devo ringraziare i miei genitori è che non mi hanno mai chiesto di portare a casa buoni voti; a volte questa è stata una mia esigenza, ma non è mai stata una fissazione.
Può capitare nell’esperienza di figli che l’apprezzamento di buoni voti sia merce di scambio al mercato dell’amore.
Ma in questo mercato possiamo chiederci: la scuola può essere un campo in cui trovare alleati per coltivare un’autostima che non sia quantificabile numericamente? Ma che abbia a che fare con la qualità, con il riconoscimento dei propri desideri, dei propri interessi? Posso promuovere questo senza perorare la causa dell’abolizione dei voti o delle pagelle? Io – qualunque ruolo abbia – posso coltivare questo, se per me è un tema importante? Se non posso convicere gli altri, posso farlo per me stess*?
A volte, oggi, parlo con la me adolescente, che mi racconta di quanto è stato difficile vivere gli anni scolastici.
La mia scuola non aveva uno sportello di ascolto dedicato agli studenti: se avessi voluto rivolgermi a una persona professionalmente competente, avrei dovuto rivolgermi necessariamente ai miei genitori e probabilmente avrei dovuto sostenere il loro filtro tra me e il/la professionista, cosa che non ero disposta a fare, arrabbiata e riservata com’ero.
La scuola può essere uno spazio protetto in cui trovare persone che siano un riferimento, senza il filtro delle persone che percepiamo come coinvolte nella nostra difficoltà; può fornire degli spazi neutri. E se non lo fa? Cosa posso fare io? Certamente posso biasimare l’istituzione e posso crescere dicendo “Ah se avessi avuto lo psicologo a scuola come sarebbe stata diversa la mia vita!”. Questa è una possibilità. E se invece mi domandassi: Ci sono persone che possono ascoltarmi con comprensione, che possono accogliere i miei dubbi e le mie difficoltà, che mi sembrano capaci di ascoltarmi? Se sì, mi rivolgo a loro o qualcosa mi trattiene dal farlo? Cosa mi trattiene dal farlo? Cosa farebbe valere la pena di chiedere a qualche adult* o compagn* significativ* di ascoltarmi e provare ad aiutarmi?
Possiamo avere cura gli uni degli altri a scuola?
Molte realtà di gruppo possono avere i connotati di una comunità.
Una comunità può non solo curare qualcosa che ha già varcato la soglia della malattia, ma può anche promuovere ciò che fa bene ed essere di sostegno quando qualcosa fa male: essere una fontana, un luogo caldo, un tetto, una tavola intorno a cui sedere per nutrirsi, un divano su cui sedersi a farsi qualche coccola, un luogo sicuro in cui esprimersi e non giudicarsi.
La scuola – con la sua inter-generazionalità, la sua complessità, le sue responsabilità variamente distribuite, le sue risorse da mettere in campo e da decidere come usare – è una comunità.
In che modo ciascun protagonista della lunga storia scolastica (ben 13 anni della nostra vita, nella migliore delle ipotesi – escludendo l’Università!) può contribuire alla trasformazione della propria esperienza?
In che modo la scuola può farsi promotrice di Salute Mentale, cioè – dal mio punto di vista – di qualità della vita?
“Gli studenti non hanno bisogno di un insegnante perfetto. Hanno bisogno di un insegnante felice. Qualcuno che li renda entusiasti di venire a scuola e cresca in loro l’amore per l’apprendimento” (R.Feynman, fisico divulgatore scientifico statunitense, New York 1918 – Los Angeles 1988).
Ho scelto questa citazione perché non mi è piaciuta, sebbene ne colga il valore di incoraggiamento ad essere insegnanti appassionati per la trasmissione dell’amore per il sapere.
“Gli studenti”: è una categoria così ampia che è impensabile poter scrivere cosa deve saper fare un buon insegnante e quali sono davvero le caratteristiche di un insegnante che porti al diploma la gente. “Un insegnante felice” può anche essere una persona sadica che esercita felicemente il suo sadismo sugli studenti.
L’insegnamento non può avvalersi di motti. La vita non può avvalersi di motti. Non siamo in una competizione, non siamo in una guerra, non siamo in una partita di pallone. Gli studenti sono un pezzettino di umanità, di una ampia fascia d’età che va dai pochi anni delle scoperte incredibili (come scrivere il proprio nome! WOW!), fino al momento in cui si decide che direzione dare alla propria vita professionale (che diventa come un secondo nome, a volte). Gli insegnanti sono una comunità di adulti a disposizione di persone diverse, con un bisogno di conoscenza che ha più flessioni del verbo greco (un verbo greco può avere ottomila forme verbali).
E quindi: come si fa?
La scuola può essere un posto in cui promuovere l’espressione: il riconoscimento delle sensazioni, delle emozioni (possono essere riconosciute se si riconosce che hanno valore nella nostra vita) e la possibilità di comunicarle all’altro, ciascuno parlando di sé, senza timore che l’altro si senta in diritto di dirmi che quello che sto esprimendo è giusto o sbagliato.
Posso dire che se gli altri non sanno scrivere e io devo passare le mie ore a fare niente questo mi fa sentire arrabbiata, certo che posso!
Perché l’espressione, cioè l’esplicitazione, crea la possibilità di immaginare un’infinità di alternative alla noia e alla frustrazione, stabilire degli obiettivi (faccio degli esempi che non hanno la pretesa di essere esaustivi: favorire ulteriori progressi facendo fare all’alunn* in questione attività dedicate o favorire l’interazione tra alunn* e usare quella conoscenza come una risorsa per tutt*, senza creare ulteriori disparità e corse ad ostacoli e proponendo un’esperienza attiva di comunità? Quell’alunn* che ha acquisito delle abilità, è un* bambin* che può anche avere bisogno di sperimentare la dimensione del confronto con i pari e del divertimento e del gioco? Posso favorire questo processo?).
Abituati alla metafora della guerra (leggi: della competizione) ragioniamo in termini di vittoria e sconfitta e cioè c’è chi vince e c’è chi perde. Siamo contro: adulti contro adolescenti (adolescenti contro adulti), superiori gerarchici contro inferiori gerarchici (e inferiori gerarchici contro superiori gerarchici), genitori contro docenti (e docenti contro genitori), docenti contro docenti. Questo pezzo lo prendo in prestito dal bidello irlandese dei Simpson (quello doppiato con accento sardo).
Invece, in una logica di scambio avviene che le due parti, se lo scambio ha tenuto conto delle esigenze di entrambe, sono soddisfatte.
Soddisfatto è una parola a me molto cara, perché contiene in sé un verbo, facio, e un avverbio preziosissimo e a me molto caro, satis, già citato: abbastanza, sufficientemente, in inglese: enough.
Quindi qui per me una proposta per una comunità scolastica che si prenda cura di tutt*. Una proposta sufficientemente buona.
Riassumendo, la mia proposta – la mia pillola del giorno, la mia prescrizione da Dottoressa (Peluche) – è la seguente:
- Ascoltare “Il negozio di antiquariato” di Niccolò Fabi, gustarsela, sentire che effetto fa, che sensazioni risveglia.
- Immaginare che la scuola sia un negozio di antiquariato (e non una vetrina di via del Corso) e guardarsi intorno, disposti a trovare qualcosa di buono per sé e a lasciare qualcosa in cambio, che sia un reciproco contributo alla trasformazione del negozio
- Provare a concentrarmi su ciò che c’è e non solo su quello che manca: nella mia quotidianità a scuola, ci sono persone che sono per me possibili fonti di sostegno e di aiuto? Ci sono persone di cui posso fidarmi per trovare sostegno rispetto a difficoltà che sto sperimentando? Se sì, riesco a rivolgermi a loro con facilità? Se non lo faccio, cosa mi trattiene? Cosa può aiutarmi a chiedere aiuto?
Dott.ssa Micaela Bozzetti – Medico Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura di Terni