Sono tanti gli aspetti che non ci è dato sapere su ciò che è accaduto a Ruvo di Puglia i primi di dicembre.

Tuttavia, ci sono fatti che conosciamo.

Sappiamo che la vita di uno studente di liceo si è spezzata dopo un volo dalla finestra della sua aula e che questo è accaduto dopo un’ora in cui un insegnante, trovando gli alunni impreparati, ha pensato di risolvere la cosa con una sfilza di insufficienze.

Quello che dovrebbe essere il teatro di un’esplosione quotidiana di vita, un luogo sicuro, si è trasformato nel giro di pochi minuti in uno scenario di morte e tragedia.

Penso che questi pochi elementi siano sufficienti per avviare una riflessione necessaria, che vada ben al di là del singolo episodio drammatico (che ora appartiene in primis al dolore inimmaginabile e irreparabile dei familiari e degli amici) e che si concentri sul ruolo delle comunità educanti nel nostro Paese.

La formazione complessiva della persona è, per definizione, un ambito delicato nel quale intervengono tanti elementi differenti:

  • il contesto familiare,
  • il territorio di appartenenza,
  • le frequentazioni più assidue,
  • la scuola.

In questa pluralità di soggetti e luoghi, gli istituti scolastici svolgono un ruolo tutt’altro che marginale.

Hanno infatti un potere generativo e transformativo impressionante, godendo della facoltà preziosissima di cambiare i destini delle persone.

La scuola è così il luogo in cui uno studente può emanciparsi, vedere il mondo schiudersi davanti ai propri occhi, trovare la propria vocazione, confrontarsi con compagni con storie e idee diverse dalle proprie, accedere a opportunità che possono cambiargli la vita (alla fine, dovrebbe essere questo il senso dell’orientamento…).

Questa prospettiva non può convivere con esperienze di ansia e angoscia che non sono rare nei contesti scolastici e che troppo spesso vengono etichettate come normali, se non addirittura necessarie all’apprendimento.

Attacchi di panico, difficoltà di concentrazione, stress per un turbinio di scadenze, pianti per verifiche andate male: la mente di chiunque, pensando a questo elenco, è percorsa da immagini di situazioni vissute o osservate a distanza ravvicinata.

C’è chi affronta per 13 anni la scuola facendo una corsa a ostacoli con esperienze del genere: storie individuali ma non troppo che diventano ancora più drammatiche quando alla base hanno contesti familiari complessi, condizioni economiche precarie, labirinti di emozioni da gestire dei quali la scuola non sempre riesce a fornire una mappa per raggiungere la salvezza.

Tuttavia esiste – e tantissimi docenti lo praticano già – un modo diverso di fare scuola, che mette al centro lo studente, operando per spalancargli le porte dell’esistenza, insegnargli ciò che davvero conta in una vita, lasciargli in dote il senso del possibile.

Ciò implica la fatica, ancora oggi troppo poco riconosciuta e valorizzata, anche sul piano economico, nel nostro Paese, di entrare nella psicologia di una persona, di comprenderne fragilità e desideri, passioni e attitudini nascoste e di prendersene cura.

Quando questa fatica è assente e si cade nell’errore di considerare quello dei docenti un lavoro qualsiasi, caratterizzato da una rigida routine di spiegazione, interrogazione e valutazione, nella quale l’empatia non ha alcuno spazio, la società subisce una grave perdita.

Gli studenti rischiano di uscirne con poca autostima, grandi insicurezze e scarsa fiducia nel futuro: di sentirsi inadeguati, indegni.

Rimettere al centro le comunità educanti oggi vuol dire privarle di ogni confine: di tempo, perché i luoghi del sapere devono essere punti di riferimento in ogni momento della giornata; di spazio, perché la tecnologia ci offre gli strumenti per far sì che ogni luogo possa diventare scuola; di raggio d’azione, perché il nozionismo non dovrebbe essere una categoria della formazione.

È, questo, un dibattito che non si può eludere. Altrimenti, vicende come quella di Ruvo sono destinate a essere archiviate come casi isolati e la scuola italiana continuerà a evitare il balzo in avanti di cui la società ha bisogno.

A cura di Giulia Iacovelli